Zipolite è il posto senza nulla più pieno che c'è” Presente, no, quando una frase ti gira in testa? Dei giri lunghi e arzigogolati nella testa tua. Dei giri ...
IL POSTO SENZA NULLA PIU’ PIENO CHE C’E’. MESSICO (PARTE QUINTA) ZIPOLITE-PUERTO ESCONDIDO
“Zipolite è il posto senza nulla più pieno che c’è”
Presente, no, quando una frase ti gira in testa? Dei giri lunghi e arzigogolati nella testa tua.
Dei giri che sembra che a un certo punto se ne sia andata per sempre, in vacanza, con un collettivo di quelli che si prendono qui, tutti ammassati e tutti traballini che se non ti tieni salda caschi giù in strada, come una pera dall’albero . E invece no! Col cavolo che se n’è andata per davvero! E’ ancora lì, che gira e gira e non trova pace e gira, sta frase benedetta.
Mica è mia. E’ di un amico, che qui c’è stato anni fa e che mi ha detto: sai cosa? Lì ci devi proprio andare.
E io, che sono una che i consigli li ascolta (a volte, e non so dire quali volte), qui ci sono proprio venuta.
Zipolite è mia.
Ma qui bisogna specificare l’utilizzo che faccio io di questo imponente pronome possessivo.
Per me “mio” ha acquisito, negli anni, una valenza molto più strutturata (e nobile? si va beh…) rispetto all’idea di arcinoto, arcibasico, arcitedioso possesso. E’ più legato al sentire, che all’avere.
Il mio “mio” è il titolo di un libro di Erri de Luca “Tu, mio”, dove l’unica mediazione tra ciò che si desidera possedere e la dichiarazione dell’avvenuto possesso è una virgola. Una distanza piccola, una crepa innocua, un sospiro velato, il tempo necessario per soppesare le forze in gioco.
Nessuna esigenza di spiegare. Che è concisa, risolta e secca la questione. La verbosità lasciamola a sintassi sentimentali più articolate.
Il mio “mio” significa che ti ho preso, eccome se ti ho preso, ti ho agguantato e non ti faccio più andare via, ti ho scelto (però un po’ mi hai scelto anche tu), ti ho compreso, ti ho mangiato, ti ho custodito e ti ho cuorizzato.
Allora dopo tutte queste cose, che ho fatto, vuoi non essere mio?
PICCOLE QUOTIDIANE INASPETTATE MAGIE A ZIPOLITE
UNO.
Zipolite non mi lascia andar via, i giorni passano e io resto qui. Che stregoneria è mai questa, insomma, si può sapere? Questo posto mi chiama come le Sirene chiamavano Ulisse e io mica ho la forza di volontà di Ulisse, per dirla tutta. Potrei dire ad Alice e Flor, adesso mettetemi su un cavolo di bus per il Guatemala, legatemi alla poltrona e lasciatemi lì.
Ma io non sono come Ulisse. Io cedo. Subito. Al primo Laaaaaaa, laaaaa, laaaa di sirene. Già sono andata. Fritta. Irreparabilmente innamorata.
Lo accolgo questo canto e mi metto ad ascoltarlo con tutte le orecchie che ho, che sono due, e che non bastano mai.. Mi comprometto con te, Zipolite. Mi prendo questa responsabilità. Me la prendo, va bene?
Facciamo naufragare le parole “Progetti”, “Piani”, “Scadenze”. Che se non sanno galleggiare ci sarà pure un motivo. Che se non hanno imparato a nuotare non possiamo farcene una colpa. O no? I tempi sono tutti diversi rispetto a quello che immaginavo quand’ero a casa sul mio divano e non ero sporca di sale, di sabbia e dei sorrisi della gente. E quando in un posto la persone iniziano a chiamarti per nome, significa che in quel posto stai mettendo radici e quindi sei palesemente fottuto e andar via, è certo, ti costerà più di una lacrima (quel momento, che sta arrivando…mi fa una paura, ma una paura..)
DUE.
Il posto senza nulla più pieno che c’è.
Due negozi in croce, una pseudo-discoteca sempre vuota (definitivamente, inesorabilmente vuota), che mi lascia perplessa e mi affascina terribilmente, un gelataio (una pallina sola con un gusto solo, ma il cono può essere anche di cioccolato se vuoi) , una panetteria sempre chiusa, che comunque non vende pane, 2 o 3 ristoranti (cucina Messicana, per lo più), una farmacia che non è una farmacia, ma un negozio di prodotti per il corpo. Due o tre alimentari, la ragazza incinta con gli occhi dolci come il caramello che fa il pollo alla griglia con cipolle e patate. Poi c’è la “Posada Mexico” che è “mia” (vedi sopra e sotto) e c’è pure Giorgione un signore di Torino che vende salumi Italiani e, cascasse il mondo, oggi mi mangio un panino con la mortadella. Zipolite negli ultimi 20 anni è stata massacrata da due uragani e la parte finale della spiaggia è tutta sbrindellata. Con scheletri di cemento, spogliati dal bambù e dal legno; con cerotti troppo provvisori per buchi troppo ingordi. E nessuno si prende la briga di aggiustarla. Che se ti piace è così, se non ti piace ciao, vai pure caro.
Eppure a me sembra che a Zipolite sia sempre il 29 febbraio. Un giorno senza tempo, una cosa eccezionale e per questo straniante che porta ammirazione e disagio, diffidenza e improvviso, baldanzoso, buonumore. Il 29 febbraio è il giorno albino del calendario. Tutto bianco, da riempire come si vuole e come si può. E’ il giorno più vuoto e più pieno che possa esistere. Come Zipolite
TRE
Una mattina-alba ho visto la palla di luce che avvolgeva uomini e donne che camminavano e correvano sulla spiaggia, alcuni nudi altri no. (A Zipolite scegli tu come stare, nessuno ti verrà a chiedere spiegazioni sui vestiti che hai scelto di metterti o di toglierti). La luce sembrava innaturale. Era quasi più sensato pensare che non si trattasse di un’alba, quanto di unaporta (presente il teletrasporto di Star Trek?) che avrebbe catapultato le persone in un altro luogo, tipo in Cina. Me li sono immaginati tutti accaldati dalla corsa, nudi, sudati, con gli occhiali da sole e i piedi insabbiati, ritrovarsi, all’improvviso, a Shanghai!
Il vento giocava pesante quella mattina, e i pellicani si allineavano per poi scendere in picchiata.
Ascoltavo una canzone dei Sigur Rós e in pochi secondi mi sono resa conto che la canzone assumeva il ruolo di colonna sonora di quello che stavo vedendo. Salivano i bassi e la batteria e gli strumenti tutti in un climax violento e scellerato quando i gabbiani e i pellicani si alzavano all’unisono e le onde sbranavano il cielo e poi si spogliava di tutto, la canzone, quando il mare si calmava e l’equilibrio, saggiamente, si riassestava. Restava, a quel punto, solo la voce dilatata del cantante ad accompagnare il suono dell’oceano (perché tanto anche anche se alzi il volume è sempre più forte lui).
Ho pensato fosse una suggestione. Ma no. Non lo era.
Era semplicemente, credo, l’armonia del tutto.
Della musica nelle mie orecchie, della natura nei miei occhi, della pace in me.
Ho pensato in quel momento alla morte. Per la prima volta nella mia vita l’ho pensata come una cosa semplice. Ho pensato che le persone che amiamo, una volta che necessariamente devono dirci ciao, è lì che vanno a finire: tra le onde, i pellicani e l’alba. Proprio lì, da nessun altra parte, se non lì. La natura continua il suo corso, non smette il mare di ululare, il sole di sorgere, i gabbiani di mangiarsi il pesce. E le persone che amiamo sono parte della natura pure loro, nel posto più sicuro del mondo, perché la bellezza non rifiuta nessuno.
QUATTRO
In quasi due settimane qui, ho dormito in 3 posti diversi. La Posada Mexico, la prima, meraviglia delle meraviglie. Sembrerà strano ma la mia cotta per Zipolite è iniziata qui, nella mia cabaña sopraelevata sull’oceano.
Dopo 3 notti l’ho dovuta lasciare con un groppo alla gola, perché ahimè era già prenotata da mo’. Quella stessa sera, però, vedendomi così amareggiata, mi hanno fatto una sorpresa. Allo stesso prezzo (un prezzo davvero davvero davvero di favore), mi hanno dato la possibilità di fermarmi una notte in più e di stare in un’altra cabaña. Una suite! Col bagno in camera! (Il lusso più grande che mi sia capitato negli ultimi due mesi!) Alla mia sincera passione per quel posto, hanno risposto con altrettanta sincera passione. Avevo bisogno di ricevere e mi hanno dato. A una sconosciuta, a una chennesochiseitu, a una di passaggio. Hanno dato a me, che prima non ero nessuno, ma che adesso sono un nome e una storia intrecciata alla loro.
Il sesto giorno mi sono spostata all’ostello Carrizo, e anche qui ho avuto una stanza mia, che il primo giorno, per una serie di coincidenze fortunate e incredibili ho pagato solo 2 euro.
Dopo 3 giorni a Puerto Escondido, al mio ritorno, sono finita nella Posada Navidad, per una notte. Prova piuttosto ardua… diciamo che il bagno della suddetta Posada è impresso nella mia testa a lettere di fuoco (e io sono una che si adatta e che sia adatta a quasi tutto), ma sto cercando, piano piano, di dimenticarlo.
Infine sono tornata al Carrizo, dove ora condivido la stanza con Flor.
Tutti questi spostamenti sono avvenuti in un raggio di 100 metri. A 100 metri realtà diametralmente opposte e io le ho vissute tutte.
CINQUE
Un giorno io e Alice (Alice che ho conosciuto a Oaxaca e che avevo perso, ora è a Zipolite, e insieme a Flor siamo inseparabili) abbiamo pensato che avremmo dovuto spogliarci di tutto e affrontare l’oceano, e noi stesse anche. Ci siamo buttate nelle onde e abbiamo iniziato a gridare forte, fortissimo, tutto quello che siamo e tutto quello che avremmo dovuto cambiare e tutto quello che non vogliamo più sentirci dire e tutto quello che non permetteremo più che ci venga detto.
Ma soprattutto celebravamo la vita. E urlavamo la nostra gioia. Ridendo come si ride quando hai fame di ridere e ballando tra le onde come si balla quando hai fame di ballare. Porta via tutto mare! Tutto!
Solo la nostra umanità lasciacela. Lasciaci sbagliate e imperfette, che andiamo bene così.
Ho gridato tanto che non avevo più voce e Alice che aveva il mal di gola l’ha peggiorato un bel po’, e alla sera le ho dovuto dare il Benagol.
A me piace molto parlare e avevo molto da dire, ma più di una volta l’oceano mi ha fatto bere, quasi a dirmi ok, va bene, ma adesso zitta un po’ eh.
PUERTO ESCONDIDO
Nascere non è una cosa facile.
Chiedetelo alle tartarughe se è facile.
Vi diranno no, che non lo è. Che dentro l’uovo-pallina da ping pong ci stavano bene. L’uovo che ho avuto il privilegio di tenere tra le mie mani ed era caldo e pulsava. Pulsava di un cuore tartaruga, nelle mani di un cuore umano. E e io le dicevo, vedrai che bello che è qui, e lei mi rispondeva, non sai quanto è bello qui!
Eh…hai ragione.
Il giorno dopo la pallina da ping pong si è schiusa e le teste nere delle tartarughe hanno fatto capolino dal nido di sabbia (creato per loro dai volontari. Persone che tutta la notte camminano avanti e indietro sulla spiaggia per recuperare le uova che, altrimenti, sarebbero spacciate)
I volontari le hanno aspettate, una a una, le tartarughe nere, e le hanno messe in un recinto.
Non è ancora ora di buttarsi nell’oceano.
Perché? Chiedono le tartarughe tutte in solluchero, con l’ansia incontenibile della vita.
Perché ci sono i gabbiani… ce ne sono tanti ora, e mica vengono a dirti ciao, benvenuta in questo mondo. Ti vengano a mangiare, capisci?
Eh sì, che capisco. In pratica sono nata da 2 minuti ed già è tutto un gran casino.
Aspettiamo le 17 30, le 18…quando i gabbiani sono distratti, che è orario aperitivo..Ok?
Ok!
Mi hanno dato una tartarughina da tenere nelle mani. Oh mamma mia, oh mamma mia!
Scalcia da tutte le parti con una forza che mica ho capito da dove viene. La guardo negli occhi e le dico le stesse cose di ieri, vedrai che bello che sarà…
Va bene, mi dice, ma adesso mettimi giù, dai.
I volontari tracciano una linea sulla sabbia. Oltre la linea posizioniamo le tartarughe al 3, va bene?
1, 2…ossignorebenedetto…3!
Il conto alla rovescio verso la vita. Centinaia sono, in un attimo si direzionano verso l’oceano, chiamate da un istinto ancestrale, con una audacia degna di tutto il rispetto del mondo, iniziano a sgambettare verso le onde. La mia resta un pochino indietro, ma io la tranquillizzo:mai arrivata prima in vita mia, ma sai cosa? l’importante è arrivare. Coraggio!
Le onde sono tremende e spietate e penso: ma non c’è un modo più dolce? Non c’è una maniera più delicata?
No, non c’è. Nascere non è una cosa facile.
Buuummm, le onde le scaravoltano sul carapace e restano così a pancia all’aria.
Mi viene voglia di andare ad aiutarle, anzi son già scattata in piedi, agitata e all’erta, che tra un secondo passo la linea pure io e vado a….ma no. Fanno da sole.
Io non c’entro niente con la loro battaglia. A ognuno la sua.
A ognuno la propria personale battaglia.
Le onde se le portano via. E scompaiono in poco tempo.
Bisogna lasciarle andare. Lasciare andare, anche quando vorresti trattenere. Anche quando non sei capace di sciogliere, di mollare la presa.
Lasciare andare tutto, anche ciò che è “mio”… sempre che qualcosa sia mai stato “mio” per davvero.
Confidare nella saggezza dell’acqua.
Si nasce e si muore da soli. Così si dice. E in mezzo, tra questi due verità folli, indicibili, misteriose e immutabili c’è un mare. E la grandezza delle sue onde, io credo, la decidiamo noi.
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Canzone consigliata per la lettura: “Vaka”dei Sigur Rós
Questo post è dedicato a Eva, che è stata qui, in questa parte d’Oceano, in questa parte di mondo, qualche mese prima di me, nella pancia della sua mamma, Agnese.
Adesso sei nata Eva, e io sono certa che il Messico te lo porti dentro e che, un giorno, prima o poi, ci vorrai tornare…
Buona vita. Buone onde.